mercoledì, febbraio 20, 2008

Dalle “cartoline marziane” ai primi uomini sul Pianeta Rosso nel 2020


Testo e foto in www.marellagiovannelli.com (sez.Marella Giovannelli)

La sonda Phoenix è in viaggio verso Marte alla ricerca di acqua e forme di vita, presenti o passate. Ci arriverà nel periodo compreso tra maggio e settembre 2008. Nel 2020, invece, il suolo di Marte, sarà calpestato dai primi astronauti. Ne è convinto Brian Muirhead, l’ingegnere della Nasa, padre-pioniere delle attuali missioni sul Pianeta Rosso.
Sta lavorando ad un progetto che prevede l’esplorazione non più effettuata da sonde, come è stato fino ad oggi, ma da uomini. Impiegheranno dai sette ai dodici mesi per raggiungere Marte dove troveranno una gravità pari a 0,38 (quella della Terra è 1), temperature di -100 gradi centigradi e un'orografia rocciosa, simile a quella della Valle della Morte in California. La spedizione porterà sul Pianeta Rosso un apparecchio che eseguirà analisi biochimiche istantanee e sarà in grado di individuare ogni traccia di vita, anche la più microscopica.
Da approfondire un’ipotesi, per ora solo suggestiva: se su Marte un tempo ci fu vita, l'impatto di un asteroide potrebbe aver provocato la diffusione nello spazio di rocce marziane, contenenti microrganismi, che poi sono arrivate fino a noi. Ma potrebbe anche essere avvenuto l'opposto, o che la vita si sia generata in entrambi i pianeti separatamente.
Il Pianeta Rosso oggi è freddo e asciutto, con una sottile atmosfera di biossido di carbonio; non ci sono fiumi, mari o laghi. Ma, in passato, l’aspetto di Marte era probabilmente molto diverso e non si esclude la presenza dell’acqua e di alcune forme di vita.
Lo studio condotto dalla sonda Opportunity sulla superficie del Pianeta Rosso ha infatti rivelato l'esistenza di solfati e di altri minerali che si formano in presenza di acqua. E allora, forse, potevano anche svilupparsi organismi viventi.
Le scanalature che collegano rilievi e depressioni del suolo marziano, veri e propri canyon, hanno convinto la maggior parte degli scienziati che l'acqua abbia eroso a lungo il territorio prima di scomparire, almeno in forma liquida. Sul Pianeta Rosso, in effetti, entrambe le calotte polari sono formate da ghiaccio.
In quarant’anni, dalla prima missione ad oggi, sono state inviate a terra “cartoline marziane” sempre più definite. Immagini stupefacenti, tridimensionali e colorate, puntualmente pubblicate sul sito della Nasa.

lunedì, febbraio 18, 2008

Gossip d’epoca tra scandali e delitti

Testo e foto in www.marellagiovannelli.com (sez. Marella Giovannelli)

Scandali giudiziari, di Corte e di cortili hanno sempre suscitato curiosità, più o meno morbosa, ma diffusa e resistente ai tempi e alle mode che cambiano. Un interessante viaggio a ritroso nel gossip d’epoca ha ispirato la brillante opinionista e storica Eugenia Tognotti che ha scritto questo articolo, pubblicato sulla Nuova Sardegna di oggi:
“Ha fatto notizia nei giorni scorsi la folla accampata fin dalle prime ore del mattino davanti al tribunale di Como per seguire il processo per i fatti di Erba. Ma, davvero, si tratta di un fenomeno morboso, proprio di un tempo in cui il gossip (vedi la love story tra Sarkozy e Carla Bruni) sta conquistando anche i quotidiani più paludati e autorevoli? Non proprio. Fatti di sangue, scandali pubblici, love stories, adulteri, intrighi, vizi privati di potenti - insomma tutto il materiale che riempie oggi le pagine dei giornali - era consumato con la stessa avidità nell’Inghilterra nel XVIII secolo, per esempio, e non solo nella ristretta cerchia degli “alfabetizzati” e nel chiuso delle case. A sostenerlo i risultati di una ponderosa tesi di dottorato di una ricercatrice dell’Università di Leeds, Jenny Skipps.
In tre anni ha catalogato i testi prodotti al tempo, stimolati dalle storie pruriginose di personaggi famosi, politici, aristocratici, commediografi, attrici, e, occasionalmente, i sovrani, le cui vite erano seguite con inesauribile curiosità. Mogli e amanti, celebrate e/o derise, rappresentavano quello che sono ai nostri giorni le Wags, cioè le mogli e le fidanzate dei calciatori, da Victoria Beckham a Coleen McLoughlin. Insomma, i lettori degli antenati dei tabloid erano affascinati dalle figure pubbliche come avviene oggi, “soprattutto quando avevano scheletri nell’armadio”.
Difficile darle torto e di certo il fenomeno non conosce limitazioni nello spazio e nel tempo. In Italia, epigrammi, satire, ballate popolari, poesie, Diari di eruditi, lettere di ambasciatori, persino resoconti medici, rivelano la curiosità che, tra XV e XVI secolo, circondava, per dire, una dama di rango come Lucrezia Borgia, figlia naturale del papa Alessandro VI, di cui sono note le tenebrose relazioni e le malefiche arti del veneficio, le gravidanze nascoste, ma anche le toilettes e le acconciature. Il porno-gossip si esercitava soprattutto sulle cortigiane - una particolare categoria di “donne perdute”, assurta ad una posizione superiore grazie a doti di bellezza e intelligenza. Animatrici di feste e banchetti, intrattenevano relazioni con uomini di potere, cui dovevano un principesco tenore di vita. In viaggio a Roma, Montagne lamenta che si facevano pagare una semplice conversazione come una “negociation entière”. Ragazze-immagine- si potrebbe dire, cui i potenti del tempo ricorrevano per conquistare favori e stabilire alleanze. Lo fece Ludovico il Moro nel 1495, quando il giovane re di Francia, Carlo VIII, calò in Italia con propositi bellicosi. Durante una sua sosta ad Asti, andò a trovarlo, con un largo seguito di belle cortigiane milanesi. Con “alchune” di quelle «formosissime matrone» - scrivono diversi cronisti - «pigliò amoroso piacere». Una cosa - Commenterà a fine Ottocento il medico Alfonso Corradi nei suoi Annali delle epidemie, che dimostra il degrado dei costumi di «quel secolo sì corrotto, che un principe non aveva vergogna di essere ruffiano». In Italia, la barriera rappresentata dall’analfabetismo comincia a cadere tra ‘800 e ‘900 e masse crescenti di lettori curiosi s’interessano alle vite e agli amori dei divini mondani, come Gabriele D’Annunzio. Una domanda cui i giornali non mancano di rispondere. Nel settembre del 1905, il “Corriere della Sera” arriva a pubblicare la notizia che il poeta si era addormentato nel treno che lo portava in Svizzera dove intendeva stabilirsi per divorziare dalla moglie. Ma il materiale più eccitante è offerto dalle cronache giudiziarie. Gli «scheletri» che fanno venire alla luce offrono, nel primo Novecento, il materiale più torbido eccitante che si possa immaginare: due scandali sessuali che intrecciano sangue e sesso, lotta politica e ideologia.
Il primo - in ambienti alto borghesi - è scatenato dal ritrovamento, Il 2 settembre del 1902, del cadavere del conte Francesco Bonmartini, marito separato di Linda Murri, figlia del più grande clinico del tempo, Augusto Murri, titolare della cattedra di Clinica Medica all’Università di Bologna e rappresentante di spicco dei socialisti. Le indagini riservano un colpo di scena dietro l’altro. Il primo è dato da una lettera del professor Murri con la notizia che ad uccidere era stato il figlio Tullio, per legittima difesa. In seguito la stessa Linda è accusata di essere la mandante, aiutata dal suo amante Carlo Secchi, noto otorinolaringoiatra, allievo del padre, da un medico suo amico e da una cameriera amante di Tullio. Voci e pettegolezzi sono ripresi e divulgati dai giornali in Italia e all’estero: si parla perfino di un rapporto incestuoso tra fratello e sorella. Una colata di fango sommerge l’incolpevole professor Murri. Sulla torbida vicenda si gettano i giornali conservatori, in polemica con quelli socialisti, per sottolineare i presunti danni dell’educazione materialista ed atea. Il Corriere della Sera, la Stampa, Il Momento, l’Avvenire d’Italia, il Resto del Carlino - che triplicano le loro tirature - dedicano pagine su pagine a quel processo che - come ha scritto Renzo Renzi nel suo libro “Il processo Murri” - «fu un grande fatto spettacolare: un autentico “théatre verité” si potrebbe dire, fondato sopra una storia vera, col suo delitto conclusivo, dove il pubblico cercò di capire la società in cui viveva, scorgendone il volto dietro certe facciate, con un’immediatezza che andava al passo con le ricostruzioni di una tragedia greca o elisabettiana». Pochi anni dopo, la cronaca giudiziaria offre nuovo eccitante materiale, svelando in Corte d’Assise i vizi e gli scandali di alcuni dei più nobili e influenti nomi dell’aristocrazia italiana. Alla sbarra il tenente di cavalleria e barone palermitano, tenente Vincenzo Paternò, che il 2 marzo 1911 aveva ucciso in un modesto albergo romano la sua amante, la contessa Giulia Trigona di Sant’Elia, 29 anni, moglie del conte Romualdo, già sindaco di Palermo, dama di corte della regina Elena.
Il tentativo di suicidarsi era andato a vuoto. Agli inservienti dell’albergo, subito accorsi, si presentò un’orribile scena: sul letto imbrattato di sangue giaceva il corpo senza vita della contessa, poco più in là c’era il suo amante col viso sfigurato. La rivoltella era sul pavimento. Le lettere vibranti di passione - più di cento - che questi doveva restituire erano sparse ovunque e alcune contenevano notizie delicatissime che riguardavano la casa reale. L’epistolario passerà, infatti, subito dalle mani della polizia a quelle di Giovanni Giolitti, ministro degli Interni e presidente del Consiglio. Uno scandalo di immense proporzioni che travolse una delle più nobili casate siciliane. Testimonianze, reperti, rapporti medici, riportate dagli inviati di tutti i giornali del tempo, alimentano un voyeurismo più esasperato. Nessun particolare della tormentata e infuocata relazione extraconiugale - compresi i più intimi - resta in ombra: dal rapporto sessuale prima del delitto, alla sifilide di Paternò all’aborto della vittima. Perfino le sue lettere sono lette in aula e pubblicate dai giornali. Tempo che vai, gossip che trovi.”
di Eugenia Tognotti

domenica, febbraio 17, 2008

La resurrezione dell’Armata Nuragica di Monte Prama finisce in Rete

Testo e foto in www.marellagiovannelli.com (sez.Mara Malda)

La resurrezione dei Giganti di pietra del Sinis può essere seguita anche on line collegandosi al sito www.monteprama.it/. Cinquemila frammenti saranno assemblati da un team di sedici specialisti che, nel giro di un anno, dovranno restaurare l’esercito di colossi, alti più di due metri, scoperto tra gli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, in Sardegna, sul Monte Prama.
Parliamo di 10 tonnellate di materiale, composto da 15 teste, 29 busti, 223 braccia, 200 gambe, 90 piedi, 770 frammenti di scudi, 440 parti di modellini di nuraghe, più una miriade di frammenti non classificabili. Le sculture, di dimensioni monumentali, risalenti all’epoca nuragica, raffigurano arcieri, pugilatori, guerrieri e riproduzioni di torri nuragiche. Tutte le statue appaiono in posizione eretta e superano i due metri di altezza. Oltre alla statura, colpiscono i grandi occhi rappresentati con due cerchi concentrici, la fronte molto prominente che scende su un naso stilizzato e pronunciato e l’abbigliamento che identifica in modo inequivocabile le tipologie degli arcieri e dei pugilatori. Ieri, nel Museo Civico di Cabras, è stato presentato il progetto di recupero delle sculture, finanziato dal Cipe con un milione e 200mila euro.
Per le operazioni di restauro è stato attivato un “cantiere aperto”, nel Centro di conservazione delle soprintendenze archeologiche di Li Punti (Sassari). Meglio tardi che mai, considerato l’assai poco edificante “parcheggio” dei cinquemila frammenti sigillati in duecento casse, rimaste per trent’anni negli scantinati del museo archeologico di Cagliari. Il ritrovamento delle sculture di Monte Prama è legato a un episodio casuale. Tutto cominciò nel marzo del 1974, quando Sisinnio Poddi, un contadino che arava la terra su una collina dell'oristanese, vide affiorare una testa, un busto e un braccio che impugnava un arco.
Gli scavi, iniziati solo quattro anni più tardi, portano alla luce un patrimonio inestimabile e, proprio per questo, forse troppo complicato da gestire. Solo una testa e un braccio vengono esposti in una teca senza didascalia mentre tutti gli altri brandelli in pietra dei misteriosi giganti nuragici restano per un trentennio nel magazzino del museo archeologico di Cagliari. Un tesoro più che nascosto, impastoiato in un assurdo mix di burocrazia, invidie, incuria e diatribe accademiche tanto sterili quanto miopi. Nel 2005, grazie anche alla battaglia condotta dal sindaco di Cabras, Efisio Trincas, viene finalmente portata al centro di restauro, quel che resta dell’Armata Nuragica di Monte Prama che ha preceduto i Greci, i Fenici e gli Etruschi.
Ora è ufficialmente iniziato l’archeo-puzzle che potrebbe consegnare alla Storia la prova definitiva della grandezza e della completezza della civiltà Nuragica. Nell’attesa, collegandosi con www.monteprama.it/, è possibile seguire con relazioni tecniche, immagini e filmati, i progressi del restauro.

giovedì, febbraio 14, 2008

Sorutasse bocciate: il clamore di oggi, le polemiche di ieri

Testo e foto in www.marellagiovannelli.com

Grande e prevedibile scalpore ha suscitato la sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittime le tasse sulle seconde case dei non sardi e sui guadagni legati alla compravendita degli immobili.
La bocciatura della Consulta è stata preceduta da una mare di polemiche. Nel mio articolo "Da Terra Madre a Isola Matrigna", pubblicato in questo sito il 1° giugno 2006, avevo scritto che i Soru-balzelli "puzzano di taglieggiamento e vessazione. Sono la negazione dell’accoglienza e la mortificazione dell’ospitalità".
Lo scorso giugno, per la Gazzetta di Porto Rotondo, avevo realizzato questo servizio, intitolato un "Coro di no":
“Pagare solo perché non si è sardi è demenziale. Queste tasse uccidono la Sardegna ho paura che assisteremo a un forte calo delle presenze”. Questa è l’opinione di Luigi Donà dalle Rose, sui contestati balzelli imposti dal Governatore Soru. Le tasse sul lusso sono definite “una follia” dal pubblicitario Gavino Sanna che, da creativo di razza, articola, con amara ironia, la sua opinione: “Tutto questo tassare mina l’immagine di una Sardegna che è diventata un po’ una vecchia zitella e si sta prendendo rivincite non si sa su chi e su che cosa. È una roba che sfiora il ridicolo, però è ammantata di nobili valori. Francamente mi trovo in grande imbarazzo e mi spiace che si parli così della mia terra. Noi sardi che siamo lontani abbiamo la sensazione che si stia trasformando in una mamma che non ti vuole più bene. Questa storia che il ricco è diverso, che bisogna punirlo a me sembra tremenda perfino da raccontare”.
Dello stesso avviso è Giacomo Agostini, quindici volte campione del mondo di motociclismo. Anche per lui “non è giusto fare delle differenze fra sardi e continentali, perché se vado a Sanremo o a Capri nessuno mi chiede di pagare. L’Italia è una sola”. Ancora più duro è l’attacco alle Sorutasse, sferrato da Lilli Carraro, assidua di Porto Rotondo. “Tutti noi che arriviamo dalla penisola -dice- garantiamo un indotto importante, perché paghiamo la quota del Consorzio ma anche giardinieri, custodi, i biglietti delle navi e degli aerei. Queste tasse sono un disincentivo per il turismo. La Sardegna non è frequentata solo da arabi, americani, russi e libanesi miliardari ma, soprattutto, da italiani che, salvo eccezioni, hanno fatto i soldi onestamente, lavorando, creando posti di lavoro e pagando le tasse. Pochi hanno il villone; molti hanno appartamenti, grandi, medi ma anche piccolissimi. In effetti per tenere - e mantenere - una casa in Sardegna ci vogliono molta passione e sempre più soldi”.
La giornalista sportiva Paola Ferrari De Benedetti, già lo scorso anno, in disaccordo con le tasse sul lusso, non è venuta in Sardegna come era abituata a fare. Si dichiara delusa e non dimentica di ricordare “quelle persone che faticosamente hanno realizzato il loro sogno, una casetta in Sardegna, e pagano faticosamente il mutuo”.
Balzelli firmati Soru da bocciare anche per l’architetto Gianni Gamondi che vede “parecchia demagogia e poco costrutto in queste tasse impopolari, negative e platealmente politiche”. Per gli operatori locali “le tasse sul lusso penalizzano tutta l’economia di Porto Rotondo”.
Parlano di “un allarmante calo nelle presenze turistiche e di stallo nelle trattative immobiliari a causa della normativa sulle plusvalenze.” La titolare di un’avviata agenzia è profondamente a disagio perché “moltissimi clienti si sentono offesi e discriminati; non ne fanno una questione di soldi ma di principio”. L’assemblea del Consorzio di Porto Rotondo, riunita il 1° giugno scorso, ha redatto una mozione d’ordine nella quale si invita lo stesso Consorzio a rivolgersi al Presidente della Repubblica, al presidente del Consiglio e al Parlamento europeo, per richiedere l’abrogazione della legge in questione. Intanto, si diffonde anche via Internet la rivolta contro le “tasse sul lusso” e, in alcuni siti, è stato addirittura sollecitato il boicottaggio dei prodotti eno-gastronomici sardi e della Sardegna quale meta delle vacanze estive. Telefono Blu, da parte sua, ha confermato l’impegno delle proprie strutture legali per l’assistenza a quanti vorranno fare ricorso contro il pagamento delle tasse sul lusso. È opinione comune che il gioco (rischioso per l’immagine della Sardegna) non valga la candela intesa come introito dei vituperati balzelli. Le tasse sul lusso rappresentano, per molta gente interpellata a Porto Rotondo, un segnale chiaro, un voler chiudere la Sardegna ai turisti ed una visione politica miope che danneggerà seriamente tutti i sardi, senza alcuna distinzione".

domenica, febbraio 10, 2008

Cristoforo Colombo pseudonimo di un nobile sardo. Suggestiva ipotesi di una studiosa spagnola

Testo e foto in www.marellagiovannelli.com (sez.Mara Malda)

Cristoforo Colombo sarebbe nato a Sanluri in Sardegna, secondo la studiosa iberica Marisa Azuara. L’ipotesi, nuova e suggestiva, è contenuta nel libro “Christoval Colón. Más grande que la leyenda” appena uscito in Spagna e scritto dalla stessa Azuara. La quale, ha ricostruito (e completamente rivoluzionato) la biografia di Cristoforo Colombo (pseudonimo di Cristoforo da Siena e Alagon), dopo due anni di ricerche negli archivi storici di Cagliari, Oristano, Alghero, Torino, in quelli siciliani, nei documenti della Corona d’Aragona e dell'associazione Araldica e genealogica di Sardegna.
Alcuni stralci del libro sono pubblicati oggi nella pagina della Cultura dell’Unione Sarda. La clamorosa ipotesi avanzata da Marisa Azuara, punta a smantellare la tesi, comunemente accreditata, che vuole Cristoforo Colombo, nato a Genova il 3 agosto 1451, figlio di Domenico, un tessitore di lana, e di Susanna Fontanarossa.
La studiosa spagnola sostiene che il vero nome di Cristoforo Colombo era Cristoforo da Siena e Alagon, figlio di Salvatore da Siena Piccolomini e Isabella Alagon d'Arborea. Da parte di suo padre - era il secondo figlio del Grande ammiraglio di Sardegna - Colombo era imparentato con i Piccolomini e i Chigi di Siena, con i Todeschini Piccolomini Aragona dell'Umbria, con i Visconti di Milano e con i Spinola di Firenze. Riguardo sua madre, discendeva dagli Alagon di Saragozza, dei mitici giudici sardi Mariano e Eleonora d'Arborea e del sardo genovese Brancaleone Doria.
In base alla ricostruzione fatta da Marisa Azuara, Cristoforo futuro Colombo sarebbe nato nel 1436, nel castello di Sanluri, residenza della sua famiglia paterna e trascorse la giovinezza tra Oristano, Tortolì e Castelsardo a studiare le scienze e la nautica. La vita del giovane Cristoforo sarebbe cambiata, sempre secondo la ricercatrice spagnola, nel 1458 quando venne eletto Papa Enea Piccolomini, Pio II, imparentato con i castellani di Sanluri.
Il neo-Papa nominò Gonfaloniero dell'armata papale il nipote Antonio Todeschini che, a sua volta, nominò il sardo Cristoforo da Siena, esperto di cosmografia, Capitano di vascello della flotta pontificia. Lasciata la Sardegna e il castello di Sanluri, il Cristoforo che Marisa Azuara identifica con il futuro scopritore dell’America, cominciò a frequentare i più importanti eruditi della sua epoca, ampliando e perfezionando le sue conoscenze di matematica, astrologia e geografia.
Imparò anche a disegnare mappe grazie a Fra’ Mauro, monaco camaldolese. Nei prossimi mesi una troupe di Canal Historia arriverà in Sardegna per girare uno speciale, basato sull’ ipotesi di Marisa Azuara che, in Spagna, sta suscitando grande interesse e notevole scalpore. La maggior parte degli storici, sulla base dei registri di nascita e della storia delle famiglie, ritiene che Cristoforo Colombo fosse genovese. Ma le sue origini e l’esatto luogo della sua nascita sono state sempre al centro di controversie, rivendicazioni e polemiche.
Mistero anche sul suo castigliano, pieno di parole in portoghese e in latino, e sulla mancanza di scritti lasciati da Cristoforo Colombo in lingua ligure o genovese. Sembra che avesse una pessima conoscenza della lingua volgare italiana che certamente capiva ma scriveva con molte difficoltà. Esistono invece vari documenti da lui scritti in latino ed in greco e due piccole note a margine, in italiano franco del Quattrocento, con alcune parole castigliane in intermezzo.

martedì, febbraio 05, 2008

Verruche, non corteccia e rami: curate “l’uomo albero”!


Testo e foto in www.marellagiovannelli.com (sez.Mara Malda)

Anche Focus, dopo Discovery Channel e The Telegraph, lancia un appello per curare Dede, più noto come “l’uomo-albero”, il pescatore indonesiano sfigurato a causa di una rara malattia. A provocarla sarebbero stati due fattori: il Papilloma virus e un difetto genetico che ha bloccato il suo sistema immunitario, rendendolo incapace di contenere le escrescenze. All’età di 15 anni, dopo un incidente che comportò l’asportazione della rotula, la pelle di Dede si riempì di verruche che, con il tempo, sono cresciute in modo abnorme tanto da impedirgli di lavorare e di prendersi cura dei due figli. Il corpo dell’uomo, soprattutto le mani e i piedi, sono ricoperti da una specie di corteccia formata da accumuli e stratificazioni di porri.
Del drammatico caso si è occupato Anthony Gaspari dermatologo dell'Università del Maryland. Oltre a diagnosticare la rara malattia di Dede, dopo aver analizzato il sangue dell’uomo, il medico americano ha individuato anche una possibile cura. Secondo Anthony Gaspari, la speranza dell’uomo-albero si chiama vitamina A sintetica, in grado di rafforzare le sue difese immunitarie. I filmati, facilmente rintracciabili in Rete, documentano l’autenticità del caso, rendendo pubblica anche la richiesta di aiuto di Dede, ormai noto in tutto il mondo come “l’uomo albero”. Gli sguardi e le parole dei due figli rivolte al padre, un misto di affetto, vergogna, paura e speranza, sono eloquenti quanto le penose immagini del pescatore indonesiano che si muove con fatica. Dede vuole essere aiutato e curato; licenziato dal lavoro e abbandonato dalla moglie, spera di poter avere, in futuro, un rapporto normale con i figli Entang e Utis, che oggi hanno 16 e 18 anni. Ma, secondo quanto dichiarato dal dottor Anthony Gaspari, il governo di Giakarta non consente a Dede di andare in America per curarsi.

domenica, febbraio 03, 2008

Gli aristocratici mostri fotografati da Diane Arbus: un inno all’essenza dell’individuo


Testo e foto  
http://www.marellagiovannelli.com/pubblicazioni/260-gli-aristocratici-mostri-fotografati-da-diane-arbus-un-inno-all-essenza-dell-individuo
“Quelli che nascono mostri sono l’aristocrazia del mondo dell’emarginazione. Quasi tutti attraversano la vita temendo le esperienze traumatiche. I mostri sono nati insieme al loro trauma. Hanno superato il loro esame nella vita, sono degli aristocratici. Io mi adatto alle cose malmesse. Intendo dire che non mi piace metter ordine alle cose. Se qualcosa non è a posto di fronte a me, io non la metto a posto. Mi metto a posto io.”
Questa riflessione di Diane Arbus ha guidato praticamente tutta la sua attività non convenzionale e trasgressiva di fotografa che amava far emergere la normalità dei “diversi”, troppo spesso sbrigativamente liquidati come “mostri”.
Diane, morta suicida a quarantotto anni nel 1971, era nata nel 1923 a New York da una ricca famiglia ebrea, i Nemerov, di origine polacca. Comincio a lavorare nel campo della moda insieme al marito Allan Arbus ma, la fine del matrimonio, segnò una svolta definitiva anche per la carriera della giovane Diane.
Abbandonate le riviste patinate, cominciò una sua personalissima ricerca i cui risultati, ancora adesso, appaiono controtendenza e fuori dal coro. Esplora i sobborghi poveri, frequenta circhi e locali malfamati, è affascinata da un mondo oscuro popolato da “meraviglie della natura”.
Le straordinarie foto della Arbus documentano la quotidianità, spesso sorprendente, di esseri emarginati per la loro diversità o deformità. I suoi “freaks” non vengono mai ritratti come caricature o fenomeni da baraccone perché l’acuta sensibilità della fotografa non si ferma all’aspetto fisico.
Diane Arbus, nei suoi scatti, riesce a cogliere tutta l’umanità rinchiusa nel corpo-gabbia di persone solo esternamente diverse. Le espressioni, i sorrisi e gli sguardi dei soggetti fotografati (nani, giganti, travestiti, inquietanti figure di tutte le età) comunicano emozioni inattese. Testimoniano una voglia di vivere più forte della vergogna e il desiderio di una normalità troppo spesso negata. Le fotografie di Diane Arbus, a suo tempo, furono giudicate scandalose e sovversive.
Chi le guardava veniva spiazzato dalla mancanza di patetismo e morbosità; inconcepibile ritrarre la domestica serenità dei “mostri”, i loro giochi, i frammenti di vite diverse e, per questo, speciali. Le opere della grande fotografa americana, più che un elogio alla bruttezza, rappresentano un inno alla sostanza, all’essenza dell’individuo, imprigionata oggi come ieri dal culto della bellezza e della forma.

Rosella Berlusconi: i miei ricordi in ordine sparso ma affettuoso da Porto Rotondo



Nel giorno della morte di Rosella Berlusconi impossibile non ricordare le tante vacanze da lei trascorse a Porto Rotondo. A differenza di tanti altri importanti personaggi, ospiti estivi del villaggio, la mamma del Cavaliere partecipava alla vita della comunità. Lo faceva con grande semplicità e naturalezza, arguta e gentile, curiosa e loquace. La domenica non mancava mai alla Messa nella Chiesa di San Lorenzo e, prima e dopo la funzione, si tratteneva a chiacchierare con la gente. Socievole ed estroversa accettava volentieri gli inviti. Un pomeriggio partecipò all’inaugurazione di una palestra e chiese informazioni su tutti i macchinari girando fra gli invitati con l’entusiasmo di una ragazzina. A Porto Rotondo veniva spesso, anche fuori stagione e diversi suoi compleanni sono stati festeggiati alla Certosa di Punta Lada. Amava moltissimo i fiori, le rocce e il mare ma le piaceva anche “scendere” in paese da Punta Lada per una passeggiata in piazzetta o sul porto. Andava anche a teatro, con la figlia e la nipote, per seguire i saggi di danza organizzati dalle scuole di ballo di Olbia.
Due estati fa, il 14 agosto, Silvio e Rosella Berlusconi hanno partecipato alla festa di Ana Bettz. Il Cavaliere era di ottimo umore. Non a caso il mio articolo, pubblicato anche in questo sito, era intitolato “ Ferragosto canterino e ballerino per Silvio Berlusconi pirotecnico”. Io, in un tavolo poco distante dal loro, sono rimasta colpita dalla tenerezza pubblicamente dimostrata dal figlio alla madre. Lei lo osservava con un sorriso indulgente mentre lui cantava e ballava. Il Cavaliere, divertito e divertente, dopo ogni cantatina o giro di danza, si avvicinava a mamma Rosella per una carezza e un bacio. Il 14 agosto di quest’anno, l’atmosfera era molto diversa in casa di Ana Bettz. Nella mia cronaca del giorno dopo si legge che “…Berlusconi aveva lasciato a casa, oltre al maglioncino, anche la voglia di danze e coretti. Per evitare equivoci e strumentalizzazioni l’ex-Premier ha scelto di trascorrere un’estate di semi-clausura. Ogni giorno, in elicottero, parte dalla Certosa di Porto Rotondo per andare a trovare la madre, rimasta a casa per motivi di salute. “Lei mangia solo con me - ha detto Berlusconi - quindi io faccio su e giù ogni giorno”.
Nel 2004, alla presentazione del mio libro “Porto Rotondo, storia di un’emozione”, la signora Rosella arrivò accompagnata da alcuni amici. Ascoltò con attenzione i vari interventi e poi si avvicinò a me dicendomi che avevo fatto “ proprio bene a sentire gli anziani che stavano qui prima dei turisti”. Era affascinata dai racconti degli abitanti dei vecchi stazzi di Poltu Ridundu. Sul libro che le diedi, al posto della dedica, scrissi una delle mie poesie intitolata “Aquila” perché quella donna così minuta riusciva a trasmettere forza ed energia. E con questi versi oggi voglio ricordare Rosella Berlusconi.
“Ali forti spiegate nel regno di smalto
aquila in volo calmo e superbo
sulla valle incantata di peonie in fiore.
Il tuo nido in una corona di rocce.”

sabato, febbraio 02, 2008

Su Olindo e Rosa le opinioni di Eugenia Tognotti ed Elena Loewenthal

Testi e foto in www.marellagiovannelli.com (Sez. Mara Malda)

Tra i tanti articoli letti in questi giorni su Olindo e Rosa ne ho scelti due, uno di Eugenia Tognotti e l'altro di Elena Loewenthal. Le loro opinioni rispecchiano il turbamento di tutti ed aiutano a capire le ragioni di un disagio difficile da capire e ancora più difficile da spiegare.

Olindo e Rosa, l’Italia oggi di Eugenia Tognotti (La Nuova Sardegna).
A vederla in televisione, la coppia assassina della porta accanto - Olindo e Rosa - chiusi nella stessa gabbia a guardare il mondo oltre le sbarre, si stenta a credere che davvero siano loro gli autori della carneficina di Erba. Le due belve che, in una sera d’inverno, armati di coltelli e di una «spranghetta» - incongruo diminutivo usato dall’uomo per indicare l’arma del delitto - avrebbero massacrato tre donne, ridotto in fin di vita il marito di una di loro, tagliato la gola ad un bambino di appena due anni, con futile bestialità. E tutto perché quei vicini rumorosi e festaioli gli disturbavano il sonno. A far riflettere è proprio la «normalità» di quella coppia, delle immagini del cortile, della casa, del condominio che ha fatto da sfondo ad una tra le piú clamorose, efferate e inspiegabili stragi familiari del dopoguerra, in cui emerge il sospetto e l’intolleranza per i nuovi «vicini nemici», gli extracomunitari. Colpisce la geografia di una brutale serie di vicende di sangue e follia - concentrata nel ricco, ordinato e produttivo Nord - dal quieto entroterra di Como a Novi Ligure, a Brescia e, ultimo in ordine di tempo, Castelfranco Veneto. S’impone l’orrore che si nasconde in persone «normali», sospese lungo il crinale di una vita piatta, vuota, chiusa agli altri. E lo stridente contrasto tra l’ordine e la serenità apparenti di tanti ridenti paesi e la profonda sensazione di solitudine e paura che emerge da recenti sanguinosi fatti di cronaca: l’ex studente universitario, mite e beneducato che, a Brescia, uccide barbaramente e fa a pezzi gli zii coinquilini e ne dissemina i resti in Val Camonica; e, ancora, il laborioso falegname di Castelfranco Veneto, descritto dai vicini come un «tipo tranquillo», una vita normale, tutto lavoro, casa e palestra che sequestra la figlia di un ricco notaio, la uccide, la fa a pezzi e la richiude in buste di plastica, avendo cura di non sporcare l’ordinatissimo garage. Forse non è un caso che il nero all’italiana, le storie di sangue di casa nostra, si snodino sempre più spesso in questa parte del Paese. E che raccontino il malessere di una società sempre più aggomitolata attorno al disagio, specialmente in alcune aree, interessate da un processo di trasformazione che non è solo economico, territoriale, ma anche e soprattutto di identità, un tempo argine fondamentale alla mancanza di solidarietà e alla perdita di valori. Delitti familiari, violenza, cronaca nera hanno enfatizzato la percezione del pericolo e moltiplicato l’allarme sociale. Ma siamo davvero di fronte - noi contemporanei - ad un’inedita e raccapricciante qualità del male? O non sarà che a questa angosciosa percezione di un salto di qualità contribuisce, anche, l’amplificazione della violenza, diventata materia prima quotidiana di un sistema mediatico cresciuto in maniera abnorme? Ogni stilla di sangue su pavimenti, scarpe, indumenti è fotografata, ingrandita e mostrata infinite volte. Altro che il sangue «raccontato» dai cantastorie siciliani che hanno portato, per secoli, in giro per le piazze la triste storia della baronessa di Carini - uccisa dal padre nel 1563 per motivi d’onore («Lu primu corpu la donna cadiu/ l’appressu corpu la donna muriu/ Nu corpu a lu cori / nu corpu’ntra li rini, povera Barunissa di Carini»).

Una sinistra favola d'amore di Elena Loewenthal (La Stampa).

Una mano dentro l’altra. Seduti appena discosti, per potersi guardare a vicenda. Dietro le sbarre della gabbia Rosa e Olindo si toccano, dopo mesi di forzata lontananza. Lei mostra le spalle, lui fissa l’obiettivo con un’aria un po’ incantata e un po’ di sfida. Ogni tanto gli trapela quasi un’ombra di sorriso. È questa l’immagine più forte che per ora ci consegna il processo di Erba: le facce di un uomo e una donna che si vogliono bene da più di vent’anni e non si vedono da alcuni mesi. Come per far dispetto al trambusto mediatico annunciato, agli spettatori in coda, ansiosi di rivedere la terrificante scena del delitto, altro che le effusioni di un’attempata coppia.
Rosa e Olindo spiazzano, con la loro composta dolcezza. Se non fosse che sono lì, dietro le sbarre di quella gabbia e di quella terribile imputazione comune, farebbero tenerezza. Persino una specie di invidia. Quando mai ci si ama più così, di questi tempi? Per tenersi mano nella mano, dopo tanto tempo già vissuto insieme sotto lo stesso tetto, lungo le stesse giornate? L’amore di oggi ha piuttosto la faccia di due attori magistralmente immedesimati in due personaggi che fanno sesso quasi con rabbia, quasi da sconosciuti. Invece Rosa e Olindo si conoscono da una vita, ma soprattutto non conoscono altra vita se non insieme. Tanto da costruirsene una, di vita, che fosse il più possibile isolata dal mondo esterno, impermeabile persino alla polvere che Rosa scacciava di casa con igiene maniacale. Perché tutto, dalla polvere ai rumori, era un intruso fra loro due. Di fronte all’instabilità che è la vera cifra di questo presente in cui ci si ama a scadenza e ci si separa con leggerezza, in assenza di gravità sentimentale, Rosa e Olindo rappresentano un’eccezione clamorosa. Che grida la nostra inettitudine ad amare in un modo totale ed esclusivo, l’inguaribile approssimazione dei nostri rapporti umani. Se non che, la specie di tenerezza condita di vaga invidia che ispira l’immagine di quei due mano nella mano, si scontra inevitabilmente con la realtà del delitto di cui sono accusati. Con l’evidenza del grano di follia che ci vuole per vivere così, amandosi fuori dal mondo e dentro il proprio. Come se non esistesse nulla d’altro, a questo mondo. La favola è troppo bella per non diventare un incubo. Per loro due, presunti colpevoli di una strage presumibilmente consumata in nome della propria intimità. Un po’ anche per noi, costretti nostro malgrado a confrontarci con questo sinistro copione dell’amore in cui bene e male, dolcezza e crudeltà, si incontrano. È arduo da accettare, il gioco degli estremi che si toccano fino a combaciare: da una parte il sentimento più desiderato e indecifrabile che ci sia. Dall’altra una disponibilità all’odio così totale da uccidere, e così tanto e in quel modo tremendo. Mano nella mano, Rosa e Olindo custodiscono il mistero del loro amore sconfinato. A noi lasciano il conforto, anzi la certezza, che esiste un altro modo di volersi bene, di toccarsi e guardarsi negli occhi, con il mondo intorno a sé.