sabato, febbraio 02, 2008

Su Olindo e Rosa le opinioni di Eugenia Tognotti ed Elena Loewenthal

Testi e foto in www.marellagiovannelli.com (Sez. Mara Malda)

Tra i tanti articoli letti in questi giorni su Olindo e Rosa ne ho scelti due, uno di Eugenia Tognotti e l'altro di Elena Loewenthal. Le loro opinioni rispecchiano il turbamento di tutti ed aiutano a capire le ragioni di un disagio difficile da capire e ancora più difficile da spiegare.

Olindo e Rosa, l’Italia oggi di Eugenia Tognotti (La Nuova Sardegna).
A vederla in televisione, la coppia assassina della porta accanto - Olindo e Rosa - chiusi nella stessa gabbia a guardare il mondo oltre le sbarre, si stenta a credere che davvero siano loro gli autori della carneficina di Erba. Le due belve che, in una sera d’inverno, armati di coltelli e di una «spranghetta» - incongruo diminutivo usato dall’uomo per indicare l’arma del delitto - avrebbero massacrato tre donne, ridotto in fin di vita il marito di una di loro, tagliato la gola ad un bambino di appena due anni, con futile bestialità. E tutto perché quei vicini rumorosi e festaioli gli disturbavano il sonno. A far riflettere è proprio la «normalità» di quella coppia, delle immagini del cortile, della casa, del condominio che ha fatto da sfondo ad una tra le piú clamorose, efferate e inspiegabili stragi familiari del dopoguerra, in cui emerge il sospetto e l’intolleranza per i nuovi «vicini nemici», gli extracomunitari. Colpisce la geografia di una brutale serie di vicende di sangue e follia - concentrata nel ricco, ordinato e produttivo Nord - dal quieto entroterra di Como a Novi Ligure, a Brescia e, ultimo in ordine di tempo, Castelfranco Veneto. S’impone l’orrore che si nasconde in persone «normali», sospese lungo il crinale di una vita piatta, vuota, chiusa agli altri. E lo stridente contrasto tra l’ordine e la serenità apparenti di tanti ridenti paesi e la profonda sensazione di solitudine e paura che emerge da recenti sanguinosi fatti di cronaca: l’ex studente universitario, mite e beneducato che, a Brescia, uccide barbaramente e fa a pezzi gli zii coinquilini e ne dissemina i resti in Val Camonica; e, ancora, il laborioso falegname di Castelfranco Veneto, descritto dai vicini come un «tipo tranquillo», una vita normale, tutto lavoro, casa e palestra che sequestra la figlia di un ricco notaio, la uccide, la fa a pezzi e la richiude in buste di plastica, avendo cura di non sporcare l’ordinatissimo garage. Forse non è un caso che il nero all’italiana, le storie di sangue di casa nostra, si snodino sempre più spesso in questa parte del Paese. E che raccontino il malessere di una società sempre più aggomitolata attorno al disagio, specialmente in alcune aree, interessate da un processo di trasformazione che non è solo economico, territoriale, ma anche e soprattutto di identità, un tempo argine fondamentale alla mancanza di solidarietà e alla perdita di valori. Delitti familiari, violenza, cronaca nera hanno enfatizzato la percezione del pericolo e moltiplicato l’allarme sociale. Ma siamo davvero di fronte - noi contemporanei - ad un’inedita e raccapricciante qualità del male? O non sarà che a questa angosciosa percezione di un salto di qualità contribuisce, anche, l’amplificazione della violenza, diventata materia prima quotidiana di un sistema mediatico cresciuto in maniera abnorme? Ogni stilla di sangue su pavimenti, scarpe, indumenti è fotografata, ingrandita e mostrata infinite volte. Altro che il sangue «raccontato» dai cantastorie siciliani che hanno portato, per secoli, in giro per le piazze la triste storia della baronessa di Carini - uccisa dal padre nel 1563 per motivi d’onore («Lu primu corpu la donna cadiu/ l’appressu corpu la donna muriu/ Nu corpu a lu cori / nu corpu’ntra li rini, povera Barunissa di Carini»).

Una sinistra favola d'amore di Elena Loewenthal (La Stampa).

Una mano dentro l’altra. Seduti appena discosti, per potersi guardare a vicenda. Dietro le sbarre della gabbia Rosa e Olindo si toccano, dopo mesi di forzata lontananza. Lei mostra le spalle, lui fissa l’obiettivo con un’aria un po’ incantata e un po’ di sfida. Ogni tanto gli trapela quasi un’ombra di sorriso. È questa l’immagine più forte che per ora ci consegna il processo di Erba: le facce di un uomo e una donna che si vogliono bene da più di vent’anni e non si vedono da alcuni mesi. Come per far dispetto al trambusto mediatico annunciato, agli spettatori in coda, ansiosi di rivedere la terrificante scena del delitto, altro che le effusioni di un’attempata coppia.
Rosa e Olindo spiazzano, con la loro composta dolcezza. Se non fosse che sono lì, dietro le sbarre di quella gabbia e di quella terribile imputazione comune, farebbero tenerezza. Persino una specie di invidia. Quando mai ci si ama più così, di questi tempi? Per tenersi mano nella mano, dopo tanto tempo già vissuto insieme sotto lo stesso tetto, lungo le stesse giornate? L’amore di oggi ha piuttosto la faccia di due attori magistralmente immedesimati in due personaggi che fanno sesso quasi con rabbia, quasi da sconosciuti. Invece Rosa e Olindo si conoscono da una vita, ma soprattutto non conoscono altra vita se non insieme. Tanto da costruirsene una, di vita, che fosse il più possibile isolata dal mondo esterno, impermeabile persino alla polvere che Rosa scacciava di casa con igiene maniacale. Perché tutto, dalla polvere ai rumori, era un intruso fra loro due. Di fronte all’instabilità che è la vera cifra di questo presente in cui ci si ama a scadenza e ci si separa con leggerezza, in assenza di gravità sentimentale, Rosa e Olindo rappresentano un’eccezione clamorosa. Che grida la nostra inettitudine ad amare in un modo totale ed esclusivo, l’inguaribile approssimazione dei nostri rapporti umani. Se non che, la specie di tenerezza condita di vaga invidia che ispira l’immagine di quei due mano nella mano, si scontra inevitabilmente con la realtà del delitto di cui sono accusati. Con l’evidenza del grano di follia che ci vuole per vivere così, amandosi fuori dal mondo e dentro il proprio. Come se non esistesse nulla d’altro, a questo mondo. La favola è troppo bella per non diventare un incubo. Per loro due, presunti colpevoli di una strage presumibilmente consumata in nome della propria intimità. Un po’ anche per noi, costretti nostro malgrado a confrontarci con questo sinistro copione dell’amore in cui bene e male, dolcezza e crudeltà, si incontrano. È arduo da accettare, il gioco degli estremi che si toccano fino a combaciare: da una parte il sentimento più desiderato e indecifrabile che ci sia. Dall’altra una disponibilità all’odio così totale da uccidere, e così tanto e in quel modo tremendo. Mano nella mano, Rosa e Olindo custodiscono il mistero del loro amore sconfinato. A noi lasciano il conforto, anzi la certezza, che esiste un altro modo di volersi bene, di toccarsi e guardarsi negli occhi, con il mondo intorno a sé.