Testo e foto in www.marellagiovannelli.com
Nuragici = Shardana = Sardi di Sardegna. Lo sostiene, sempre più convinto, Giovanni Ugas, docente di Preistoria e Protostoria all’Università di Cagliari, impegnato nel completamento della sua trilogia sulla civiltà nuragica. Una quantità impressionante di dati archeologici e di riscontri (emersi da campagne di scavo, ricerche scientifiche e indagini dirette sulle fonti) è già contenuta nel primo volume, intitolato “L’alba dei nuraghi”, pubblicato lo scorso anno dalla casa editrice “Fabula”. Giovanni Ugas, in una lunga intervista rilasciata qualche giorno fa al giornalista Giancarlo Ghirra dell’Unione Sarda, ha ribadito la sua ipotesi (ma lui preferisce chiamarla certezza). Riguardo all'identificazione dei sardi negli Shardana e nei Popoli del Mare, Ugas fa notare che “le citazioni egiziane vanno dal XIV secolo, l'Egitto dei faraoni, all'XI, con la crisi dell'Impero ormai esplosa grazie anche agli attacchi degli Shardana. Questi trecento anni sono gli stessi dell'apice della civiltà dei nuragici.
Furono loro a salvare il grande faraone Ramses II nella battaglia di Qadesh contro gli Ittiti: gli Shardana, erano da 250 a 500, componevano la sua guardia personale, vero e proprio corpo d'élite in un esercito nel quale i combattenti arrivati dalla Sardegna erano alcune migliaia. Siamo intorno al 1285, e degli Shardana ritroveremo la presenza nel 1170, con Ramses III e le sue battaglie. Ma di loro si legge in testi più antichi, in bassorilievi e iscrizioni risalenti al 1365 nel tempio di Amenofi IV.
Guerrieri, probabilmente mercenari, si trovavano nelle guarnigioni come un corpo scelto ma anche come funzionari dell' intelligence, servizi segreti incaricati di spiare le mosse dei nemici in Palestina e a Biblos, in Libano, o Ugarit, aree occupate dagli egiziani. Comunque, gli Shardana sono un popolo egemone nel Mediterraneo occidentale, nel quale esercitano una leadership militare di lungo periodo, dal 1500 al 1200 e oltre avanti Cristo”.
Giovanni Ugas definisce “notevoli le rassomiglianze nell'abbigliamento dei guerrieri di Ramses II, ritratti nel tempio di Karnac e l'abbigliamento dei guerrieri nuragici nei bronzetti. Gli Egiziani descrivono gli Shardana e le loro armi proprio come i bronzetti nuragici del IX secolo ritraggono i guerrieri del passato, con scudo tondo, spadoni di grandi dimensioni, lance, pugnali. Li citano anche con timore, se Ramses II si vanta di averne fermato la flotta. Quel faraone ne parla anche come di suoi prigionieri, ma per ragioni di politica interna.
In realtà sono suoi alleati contro gli Ittiti e nel controllo del rame di Cipro, preziosa materia prima per l'economia e l'industria bellica del tempo. Un rame che circola nell'Isola in lingotti da 33 chili e 300 grammi, proveniente dalle miniere locali ma anche da Cipro, segno anche questo di potenza commerciale e di tecnologia militare: con il rame e le sue leghe si fanno spade, pugnali, armature. Saranno loro, insieme ai Lebush e ai Meshwess e altre popolazioni del Nord Africa a muovere nel XII secolo contro l'Egitto.
Attenzione alle date: nel 1183 cade Troia, si frantumano uno dopo l' altro l'impero miceneo, quello ittita, traballa forte persino quello egizio. Gli Shardana, i Sardi, hanno un ruolo dominante, insieme a popoli quali quelli che Erodoto chiama Maxwess, abitanti di fronte al lago Tirtonio, in Tunisia, proprio di fronte alla Sardegna. Una Sardegna di guerrieri e navigatori, che lasciò tracce in tutto il Mediterraneo”.
L’Isola avrebbe raggiunto la massima potenza militare e un grande sviluppo economico e sociale dal XIV all'XI secolo. Per Giovanni Ugas, "in quel periodo ci sono oltre ottomila nuraghi e 600mila abitanti, sparsi in circa tremila villaggi”. Le navi dei Sardi, per arrivare in Egitto utilizzavano due rotte, “quella del Nord, che passa per la Sicilia, Cipro e Creta, era più breve e meno pericolosa di quella meridionale, via Africa del Nord. Presumibilmente la navigazione durava una settimana, ovviamento con soste e punti di riferimento, quali il porto di Kommòs, a sud di Creta, dove sono state trovare ceramiche sarde”.
Siti e foto by Marella Giovannelli (Mara Malda)
mercoledì, ottobre 31, 2007
domenica, ottobre 28, 2007
Tra gli Dei non convenzionali e le Dolls non addomesticate di Gabriella Marazzi
Testo e foto in Mara Malda per www.marellagiovannelli.com
Dagli Dei alle Dolls, Gabriella Marazzi continua stupire e a colpire con i suoi ritratti dove è sempre l’umanità a prevalere. Divi, icone, celebrità si alternano a volti sconosciuti e le loro espressioni, mai scontate, rivelano sempre l’essenza della persona più che i lineamenti del personaggio.
L’artista modenese, in un sapiente gioco di equilibrio tra fotografia e pittura, riesce a cogliere frammenti di vita e di morte, forza e fragilità nei sorrisi compiaciuti e rassegnati, nella gestualità di seduzione e nevrosi, nelle smorfie di piacere e di dolore. “L’ironia amara, la rabbia, l’aggressività che possono sembrare solo disprezzo e sfida irriverente nelle mie opere nascondono in verità un infinito amore per la vita”.
Così dice la stessa Gabriella Marazzi che definisce le sue Dolls “bambole creative, arrabbiate, giocose e sensuali; matriarche giovani e femminili, a volte oggetto e soggetto”.
I volti sono quelli di donne celebri o sconosciute ma sempre capaci di comunicare emozioni e felicemente lontane dagli stereotipi convenzionali. La mostra resterà allestita fino al prossimo 3 novembre nella Galleria dell’Associazione culturale Renzo Cortina di Milano.
A chiudere il sipario sulle Dolls sarà Vittorio Sgarbi, estimatore e “presentatore” di tutte le mostre di Gabriella Marazzi, compresa l’antologica del dicembre 2006, intitolata “Dei?” alla Camera di Commercio di Parma.
Per Sgarbi “Gabriella Marazzi attraversa il mondo senza esserne contaminata. Non è distratta, non è solitaria, non è distaccata; è semplicemente altrove.
Ed è proprio questa estraneità, questa distanza dello sguardo, la condizione della sua ricerca, in nessun modo assimilabile all’iperrealismo o alla fotografia…Ognuna di queste donne ha il suo dramma, ha qualcosa che pesa loro addosso, non sono esseri normalmente addomesticati…
Il segno è contraddistinto da un certo lusso erotico nel tratteggio e dà il senso della velocità, del ritratto di una figura che non è mai in posa, pronta ad essere raccolta dall’occhio dell’artista, sembra anzi sempre còlta di sorpresa, come se colei che l’ha disegnata fosse passata in un lampo e l’avesse ritratta nella corsa dell’automobile.”
Un percorso di vita duro e intenso, segnato da picchi di gioia e sofferenza, ha forgiato Gabriella Marazzi, le cui donne, secondo Davide Laiolo, “paiono trasvolare nel vento, stropicciate dall’aria e ti guardano con occhi che, devi riconoscere, hanno da dire cose dolorose ma lo fanno con l’ironia di chi è convinto che le lagrime non servono più”.
Guerriera per natura e ribelle per temperamento, Gabriella, per Domenico Montalto “infilza il nostro perbenismo come farebbe una Artemisia Gentileschi recidiva ma depurata dal sadismo e dalla collera.
Un’Artemisia più tenera e femminile, abbarbicata al rovello di un “fare pittura” vissuto come estremo, ostinato ancoraggio all’intelligibilità delle cose, ai portati del cuore, al sogno - sia pure residuale - di una speranza che sia medicamento del dolore.”
L’artista modenese, in un sapiente gioco di equilibrio tra fotografia e pittura, riesce a cogliere frammenti di vita e di morte, forza e fragilità nei sorrisi compiaciuti e rassegnati, nella gestualità di seduzione e nevrosi, nelle smorfie di piacere e di dolore. “L’ironia amara, la rabbia, l’aggressività che possono sembrare solo disprezzo e sfida irriverente nelle mie opere nascondono in verità un infinito amore per la vita”.
Così dice la stessa Gabriella Marazzi che definisce le sue Dolls “bambole creative, arrabbiate, giocose e sensuali; matriarche giovani e femminili, a volte oggetto e soggetto”.
I volti sono quelli di donne celebri o sconosciute ma sempre capaci di comunicare emozioni e felicemente lontane dagli stereotipi convenzionali. La mostra resterà allestita fino al prossimo 3 novembre nella Galleria dell’Associazione culturale Renzo Cortina di Milano.
A chiudere il sipario sulle Dolls sarà Vittorio Sgarbi, estimatore e “presentatore” di tutte le mostre di Gabriella Marazzi, compresa l’antologica del dicembre 2006, intitolata “Dei?” alla Camera di Commercio di Parma.
Per Sgarbi “Gabriella Marazzi attraversa il mondo senza esserne contaminata. Non è distratta, non è solitaria, non è distaccata; è semplicemente altrove.
Ed è proprio questa estraneità, questa distanza dello sguardo, la condizione della sua ricerca, in nessun modo assimilabile all’iperrealismo o alla fotografia…Ognuna di queste donne ha il suo dramma, ha qualcosa che pesa loro addosso, non sono esseri normalmente addomesticati…
Il segno è contraddistinto da un certo lusso erotico nel tratteggio e dà il senso della velocità, del ritratto di una figura che non è mai in posa, pronta ad essere raccolta dall’occhio dell’artista, sembra anzi sempre còlta di sorpresa, come se colei che l’ha disegnata fosse passata in un lampo e l’avesse ritratta nella corsa dell’automobile.”
Un percorso di vita duro e intenso, segnato da picchi di gioia e sofferenza, ha forgiato Gabriella Marazzi, le cui donne, secondo Davide Laiolo, “paiono trasvolare nel vento, stropicciate dall’aria e ti guardano con occhi che, devi riconoscere, hanno da dire cose dolorose ma lo fanno con l’ironia di chi è convinto che le lagrime non servono più”.
Guerriera per natura e ribelle per temperamento, Gabriella, per Domenico Montalto “infilza il nostro perbenismo come farebbe una Artemisia Gentileschi recidiva ma depurata dal sadismo e dalla collera.
Un’Artemisia più tenera e femminile, abbarbicata al rovello di un “fare pittura” vissuto come estremo, ostinato ancoraggio all’intelligibilità delle cose, ai portati del cuore, al sogno - sia pure residuale - di una speranza che sia medicamento del dolore.”
sabato, ottobre 20, 2007
Salvatore Niffoi, l’Invidiato Sardo, conquista il Premio Manzoni a Lecco
Testo e foto di Mara Malda per www.marellagiovannelli.com
Salvatore Niffoi ha vinto il Premio Letterario A. Manzoni - Città di Lecco – 2007 per il romanzo “Ritorno a Baraule” (Adelphi). Lo scrittore sardo si è lasciato alle spalle Melo Freni, secondo con “Le stanze dell’attesa” (Viennepierre) e Laura Pariani, terza con “Dio non ama i bambini” (Einaudi). I tre titoli arrivati in finale sono stati selezionati fra sessanta opere, di autori italiani e stranieri, pubblicate tra il 1 giugno 2006 e il 31 maggio 2007.
Questa la motivazione della Giuria per il primo premio, consegnato a Salvatore Niffoi, venerdì 19 ottobre, al Teatro Sociale di Lecco:" Un Ritorno che è un viaggio nella memoria e nei suoi incubi. Alla ricerca della verità su se stesso, stremato dall’età e dalla malattia, il protagonista di questo “giallo” di respiro epico e solenne riscoprirà, accumulando le tessere di un mosaico tanto enigmatico quanto feroce, le passioni ancestrali di una terra che non conosce mediazione tra l’odio e l’amore. La Sardegna del romanzo di Niffoi parla la lingua densa e ispida, sospesa e irreale dei suoi paesaggi”.
A vincere la prima edizione del “Manzoni”, nel 2005, era stata la scrittrice Antonia Arslan con “La masseria delle allodole”, Editore Rizzoli, da cui è stato tratto l'omonimo film dei fratelli Taviani. Nel 2006, ad imporsi è stata un’altra “penna rosa”: Grazia Livi con “Lo sposo impaziente” (Garzanti).
Il Centro Nazionale Studi Manzoniani, il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, la Regione Lombardia, la Provincia e il Comune di Lecco sono fra gli enti promotori del Premio assegnato, quest’anno, a Salvatore Niffoi. Già vincitore del Campiello 2006, lo scrittore di Orani, al momento, si gode la traduzione dei suoi successi in undici lingue.
Presto ritroverà Mintonia negli affascinanti panni di Caterina Murino, protagonista del film tratto dalla sua “Vedova Scalza” e Carmine Pullana in quelli di Michele Placido, nella versione cinematografica di “Ritorno a Baraule”. Nella penisola e all’estero, Salvatore Niffoi continua a raccogliere soddisfazioni e riconoscimenti ma, anche lui, deve fare i conti con il famoso detto “Nemo propheta in patria”.
In Sardegna, infatti, deve digerire i frutti amari di un male antico: l’invidia. Alcune critiche sono incomprensibili, nella sostanza e nella forma, come il “conformisticamente macaronico”, tributato lo scorso settembre a Niffoi da Massimo Onofri. Tra gli intellettuali sardi, l’imbarazzante resurrezione dell’antico detto “Pocos, locos y male unidos”, è stata per ora frenata dall’antropologo e scrittore Giulio Angioni.
A chiusura di un suo articolo, pubblicato sulla Nuova Sardegna, qualche giorno dopo la sortita di Onofri, Angioni ha scritto “...non ha senso il fastidio per il successo di pubblico e di critica degli scrittori sardi più noti del momento che, si direbbe, tutto il mondo ci invidia. La Sardegna di oggi è anche il successo letterario di Niffoi e della Agus, di Todde e di Fois, irrobustito e supportato da eccellenze consolidate e nuove come quelle di Mannuzzu, di Ledda e di non pochi giovani, sulla solida roccia dei Deledda, Dessì, Satta, Lussu, Atzeni. L’onda c’è, e che sia lunga, magari anche, perché no?, con altre streghe e altri campielli”.
Salvatore Niffoi ha vinto il Premio Letterario A. Manzoni - Città di Lecco – 2007 per il romanzo “Ritorno a Baraule” (Adelphi). Lo scrittore sardo si è lasciato alle spalle Melo Freni, secondo con “Le stanze dell’attesa” (Viennepierre) e Laura Pariani, terza con “Dio non ama i bambini” (Einaudi). I tre titoli arrivati in finale sono stati selezionati fra sessanta opere, di autori italiani e stranieri, pubblicate tra il 1 giugno 2006 e il 31 maggio 2007.
Questa la motivazione della Giuria per il primo premio, consegnato a Salvatore Niffoi, venerdì 19 ottobre, al Teatro Sociale di Lecco:" Un Ritorno che è un viaggio nella memoria e nei suoi incubi. Alla ricerca della verità su se stesso, stremato dall’età e dalla malattia, il protagonista di questo “giallo” di respiro epico e solenne riscoprirà, accumulando le tessere di un mosaico tanto enigmatico quanto feroce, le passioni ancestrali di una terra che non conosce mediazione tra l’odio e l’amore. La Sardegna del romanzo di Niffoi parla la lingua densa e ispida, sospesa e irreale dei suoi paesaggi”.
A vincere la prima edizione del “Manzoni”, nel 2005, era stata la scrittrice Antonia Arslan con “La masseria delle allodole”, Editore Rizzoli, da cui è stato tratto l'omonimo film dei fratelli Taviani. Nel 2006, ad imporsi è stata un’altra “penna rosa”: Grazia Livi con “Lo sposo impaziente” (Garzanti).
Il Centro Nazionale Studi Manzoniani, il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, la Regione Lombardia, la Provincia e il Comune di Lecco sono fra gli enti promotori del Premio assegnato, quest’anno, a Salvatore Niffoi. Già vincitore del Campiello 2006, lo scrittore di Orani, al momento, si gode la traduzione dei suoi successi in undici lingue.
Presto ritroverà Mintonia negli affascinanti panni di Caterina Murino, protagonista del film tratto dalla sua “Vedova Scalza” e Carmine Pullana in quelli di Michele Placido, nella versione cinematografica di “Ritorno a Baraule”. Nella penisola e all’estero, Salvatore Niffoi continua a raccogliere soddisfazioni e riconoscimenti ma, anche lui, deve fare i conti con il famoso detto “Nemo propheta in patria”.
In Sardegna, infatti, deve digerire i frutti amari di un male antico: l’invidia. Alcune critiche sono incomprensibili, nella sostanza e nella forma, come il “conformisticamente macaronico”, tributato lo scorso settembre a Niffoi da Massimo Onofri. Tra gli intellettuali sardi, l’imbarazzante resurrezione dell’antico detto “Pocos, locos y male unidos”, è stata per ora frenata dall’antropologo e scrittore Giulio Angioni.
A chiusura di un suo articolo, pubblicato sulla Nuova Sardegna, qualche giorno dopo la sortita di Onofri, Angioni ha scritto “...non ha senso il fastidio per il successo di pubblico e di critica degli scrittori sardi più noti del momento che, si direbbe, tutto il mondo ci invidia. La Sardegna di oggi è anche il successo letterario di Niffoi e della Agus, di Todde e di Fois, irrobustito e supportato da eccellenze consolidate e nuove come quelle di Mannuzzu, di Ledda e di non pochi giovani, sulla solida roccia dei Deledda, Dessì, Satta, Lussu, Atzeni. L’onda c’è, e che sia lunga, magari anche, perché no?, con altre streghe e altri campielli”.
martedì, ottobre 16, 2007
Tra i 6 cibi più terrificanti del mondo saltella il Casu Marzu
Testo e foto in Mara Malda www.marellagiovannelli.com
L’articolo di Tim Cameron, su “I 6 cibi più terrificanti del mondo” pubblicato ed illustrato sul sito americano http://www.cracked.com/, sta facendo il giro del pianeta. La Sardegna si ritrova in classifica con il casu marzu, le cui “larve traslucenti sono capaci di saltare circa 15 cm in aria, rendendo questo l'unico formaggio al mondo che richiede protezione oculare quando lo si mangia. Il sapore è forte abbastanza da bruciare la lingua e gli stessi vermi qualche volta sopravvivono nell’intestino….” E qui il servizio prosegue con una irriferibile descrizione degli effetti (dati per certi, senza nemmeno un condizionale). Il povero casu marzu, infestato deliberatamente dalle larve della mosca casearia che crescono e si nutrono dello stesso formaggio, è al quinto posto. Precede, la sesta ed ultima classificata che è una specialità messicana: le Escamoles, uova di formiche giganti, legate da salsa guacamole. Più terrificante del casu marzu, è il quarto piazzato: il merluzzo norvegese lasciato per giorni nella soda caustica. La terza posizione in classifica è occupata da Baby Mice Wine: un vino di riso coreano dove fermentano topi appena nati e immersi nel liquido ancora vivi. La testa di pecora bollita (Pacha, Iraq), figura al secondo posto ma il giornalista, nella sua recensione, appare alquanto condizionato dagli occhi dell’animale, oltre che dalla quantità di ossa, ossicini e cartilagini. Più azzeccata sembra la scelta del primo classificato Balut, di origine filippina. Sono uova di anatra fecondate e bollite prima di schiudersi, quando lo scheletro del pulcino, già formato, è ancora di consistenza tenera.Inorriditi da simile compagnia, gli estimatori del formaggio marcio, noto anche come becciu, fattitu, frazigu, cunditu, gumpagadu, o casu modde. Secondo Massimo Marcone, docente al dipartimento di Scienze alimentari della University of Guelph (Ontario, Canada), il “casu marzu è un formaggio molto delicato, buono e sano”. Dopo aver effettuato una serie di esami biochimici, il professor Marcone ha “assolto” il formaggio marcio dei sardi, messo al bando, prima da una vecchia legge del 1962 (bollato come “alimento in putrefazione per cattivo stato di conservazione”) e poi dalle norme igieniche comunitarie. Il casu marzu (è preferibile chiamarlo casu modde), negli ultimi anni, ha imboccato la via della riabilitazione. Un comitato, con sede a Ossi, ha avviato la trafila per ottenere da Bruxelles il marchio Dop, lo stesso di cui si fregiano il Pecorino sardo, il Fiore sardo e il Pecorino romano. A portare avanti il progetto, finanziato anche dal Por Sardegna: la Cna sarda alimentare, la Cooperativa allevatori villanovesi e la Genuina di Ploaghe, con il supporto scientifico della facoltà di Veterinaria dell'Università di Sassari. Si punta a lasciare inalterata la qualità, arrivando a produrre il casu marzu in condizioni igieniche perfette.
E’ stato anche protagonista di due filmati, uno realizzato dal National Geographic, l’altro da Discovery Channel e mattatore in un simposio, tenuto qualche tempo fa, a Ollolai. Sono in tanti a chiedere la liberalizzazione, l’uscita dalla clandestinità dell’ospite segreto e ricercato di moltissimi sardi. Oggi però il formaggio con i vermi saltellanti è di nuovo bistrattato, questa volta a livello planetario, visto il suo inserimento nella classifica dei 6 cibi più terrificanti del mondo.
L’articolo di Tim Cameron, su “I 6 cibi più terrificanti del mondo” pubblicato ed illustrato sul sito americano http://www.cracked.com/, sta facendo il giro del pianeta. La Sardegna si ritrova in classifica con il casu marzu, le cui “larve traslucenti sono capaci di saltare circa 15 cm in aria, rendendo questo l'unico formaggio al mondo che richiede protezione oculare quando lo si mangia. Il sapore è forte abbastanza da bruciare la lingua e gli stessi vermi qualche volta sopravvivono nell’intestino….” E qui il servizio prosegue con una irriferibile descrizione degli effetti (dati per certi, senza nemmeno un condizionale). Il povero casu marzu, infestato deliberatamente dalle larve della mosca casearia che crescono e si nutrono dello stesso formaggio, è al quinto posto. Precede, la sesta ed ultima classificata che è una specialità messicana: le Escamoles, uova di formiche giganti, legate da salsa guacamole. Più terrificante del casu marzu, è il quarto piazzato: il merluzzo norvegese lasciato per giorni nella soda caustica. La terza posizione in classifica è occupata da Baby Mice Wine: un vino di riso coreano dove fermentano topi appena nati e immersi nel liquido ancora vivi. La testa di pecora bollita (Pacha, Iraq), figura al secondo posto ma il giornalista, nella sua recensione, appare alquanto condizionato dagli occhi dell’animale, oltre che dalla quantità di ossa, ossicini e cartilagini. Più azzeccata sembra la scelta del primo classificato Balut, di origine filippina. Sono uova di anatra fecondate e bollite prima di schiudersi, quando lo scheletro del pulcino, già formato, è ancora di consistenza tenera.Inorriditi da simile compagnia, gli estimatori del formaggio marcio, noto anche come becciu, fattitu, frazigu, cunditu, gumpagadu, o casu modde. Secondo Massimo Marcone, docente al dipartimento di Scienze alimentari della University of Guelph (Ontario, Canada), il “casu marzu è un formaggio molto delicato, buono e sano”. Dopo aver effettuato una serie di esami biochimici, il professor Marcone ha “assolto” il formaggio marcio dei sardi, messo al bando, prima da una vecchia legge del 1962 (bollato come “alimento in putrefazione per cattivo stato di conservazione”) e poi dalle norme igieniche comunitarie. Il casu marzu (è preferibile chiamarlo casu modde), negli ultimi anni, ha imboccato la via della riabilitazione. Un comitato, con sede a Ossi, ha avviato la trafila per ottenere da Bruxelles il marchio Dop, lo stesso di cui si fregiano il Pecorino sardo, il Fiore sardo e il Pecorino romano. A portare avanti il progetto, finanziato anche dal Por Sardegna: la Cna sarda alimentare, la Cooperativa allevatori villanovesi e la Genuina di Ploaghe, con il supporto scientifico della facoltà di Veterinaria dell'Università di Sassari. Si punta a lasciare inalterata la qualità, arrivando a produrre il casu marzu in condizioni igieniche perfette.
E’ stato anche protagonista di due filmati, uno realizzato dal National Geographic, l’altro da Discovery Channel e mattatore in un simposio, tenuto qualche tempo fa, a Ollolai. Sono in tanti a chiedere la liberalizzazione, l’uscita dalla clandestinità dell’ospite segreto e ricercato di moltissimi sardi. Oggi però il formaggio con i vermi saltellanti è di nuovo bistrattato, questa volta a livello planetario, visto il suo inserimento nella classifica dei 6 cibi più terrificanti del mondo.
lunedì, ottobre 15, 2007
Domenica archeologica per una full immersion nella storia di Olbia
Testo e foto di Marella Giovannelli per www.marellagiovannelli.com
Davanti alle Tombe dei Giganti, i Nuragici praticavano il rito dell’incubazione. Dopo una preparazione che includeva il digiuno, si addormentavano e attendevano la guarigione, “portata” dai morti che apparivano in sogno.
Questo ed altri usi e costumi degli antichi popoli vissuti in Sardegna, sono stati raccontati dagli archeologi a più di trecento persone che, domenica, hanno partecipato alla manifestazione ArcheOlbia.
Novità assoluta per la città di Olbia, è stata organizzata (dall’amministrazione comunale e dalla Cooperativa Iolao) una mattinata di visite collettive, guidate e gratuite alla Tomba di Giganti di Su Monte ‘e S’Abe, al Pozzo Sacro di Sa Testa, all’Acquedotto Romano e al Museo. Un affollato convegno, tenuto sabato dagli archeologi coinvolti nell’iniziativa, aveva stimolato l’interesse e la curiosità del pubblico.
Gli studiosi hanno ricostruito e sintetizzato con l’ausilio di slides e diapositive, l’avvincente storia di Olbia, città tra le più antiche del Mediterraneo. Hanno anche fornito particolari inediti sui popoli che, nell’arco di 2.800 anni, hanno lasciato tracce della loro presenza sul territorio olbiese. Monumenti, reperti e frammenti, recuperati in enorme quantità durante scavi, sia occasionali che mirati, documentano l’età nuragica, l’insediamento dei Fenici, quello più consistente dei Greci (fondatori di Olbia, con Iolao, nel 630 a.C, secondo lo storico Pausania), la dominazione Cartaginese, quella Romana e l’arrivo dei Vandali che, ad Olbia, anticiparono il Medioevo.
L’idea di essere trasportati, con dei bus navetta, e guidati lungo un percorso ricco di storia, alla gente, non solo di Olbia, è piaciuta moltissimo. Intere famiglie, molte coppie e tanti giovani, si sono iscritti al tour e, domenica mattina, si sono ritrovati, puntuali alle nove, davanti al Municipio, vicino al porto vecchio. Look da Indiana Jones per i turisti, tute da ginnastica e scarponcini per i locali, tutti caricati nei bus diretti ai siti archeologici.
L’archeologo Agostino Amucano ha spiegato le caratteristiche della Tomba dei Giganti di Su Monte ‘e S’Abe che, con i suoi 28 metri è tra le più lunghe di tutta la Sardegna. Questi monumenti, completi di area cerimoniale e mensole per le offerte, sia all’esterno che all’interno, erano le sepolture collettive dei Nuragici.
Dal culto dei morti a quello dell’acqua, testimoniato dal Pozzo Sacro di Sa Testa, scoperto negli Anni Trenta ed utilizzato dai Nuragici, dai Punici e dai Romani. La prova di questa sorprendente continuità d’uso, è nel materiale ritrovato: tazze, monili in bronzo, testine in terracotta e bruciaprofumi di fattura punica; resti di anfore, coppe e statuine di età romana.
Il Pozzo Sacro è stato spiegato, in modo esauriente ed efficace, dalla giovane e bravissima Viviana Pinna. Molto apprezzata anche la visita, coordinata dall’archeologa Giovanna Pietra, all’Acquedotto Romano, uno dei meglio conservati della Sardegna.
A colpire i visitatori sono state soprattutto le arcate, costruite in opera cementizia (grande rivoluzione dei Romani), e l’imponente cisterna che, forse serviva alcune ville o fattorie di notevoli dimensioni.
Ultima tappa: il Museo Archeologico, con Rubens D’Oriano che ha guidato i vari gruppi lungo un percorso distribuito su due livelli. Già pronti gli spazi per accogliere, a breve, i primi due relitti restaurati delle antiche navi romane. I legni, riportati alla luce durante gli scavi per la realizzazione del tunnel, testimoniano l’affondamento ad opera dei Vandali, ricostruito anche con la tecnologia multimediale.
Altrettanto efficace è il maxi plastico del porto antico. Le preziose memorie dell’Olbia nuragica, fenicia, greca, cartaginese, romana e medioevale, messe adeguatamente in risalto, hanno sorpreso ed entusiasmato i tanti che ancora non conoscevano il Museo e il suo contenuto.
Questo ed altri usi e costumi degli antichi popoli vissuti in Sardegna, sono stati raccontati dagli archeologi a più di trecento persone che, domenica, hanno partecipato alla manifestazione ArcheOlbia.
Novità assoluta per la città di Olbia, è stata organizzata (dall’amministrazione comunale e dalla Cooperativa Iolao) una mattinata di visite collettive, guidate e gratuite alla Tomba di Giganti di Su Monte ‘e S’Abe, al Pozzo Sacro di Sa Testa, all’Acquedotto Romano e al Museo. Un affollato convegno, tenuto sabato dagli archeologi coinvolti nell’iniziativa, aveva stimolato l’interesse e la curiosità del pubblico.
Gli studiosi hanno ricostruito e sintetizzato con l’ausilio di slides e diapositive, l’avvincente storia di Olbia, città tra le più antiche del Mediterraneo. Hanno anche fornito particolari inediti sui popoli che, nell’arco di 2.800 anni, hanno lasciato tracce della loro presenza sul territorio olbiese. Monumenti, reperti e frammenti, recuperati in enorme quantità durante scavi, sia occasionali che mirati, documentano l’età nuragica, l’insediamento dei Fenici, quello più consistente dei Greci (fondatori di Olbia, con Iolao, nel 630 a.C, secondo lo storico Pausania), la dominazione Cartaginese, quella Romana e l’arrivo dei Vandali che, ad Olbia, anticiparono il Medioevo.
L’idea di essere trasportati, con dei bus navetta, e guidati lungo un percorso ricco di storia, alla gente, non solo di Olbia, è piaciuta moltissimo. Intere famiglie, molte coppie e tanti giovani, si sono iscritti al tour e, domenica mattina, si sono ritrovati, puntuali alle nove, davanti al Municipio, vicino al porto vecchio. Look da Indiana Jones per i turisti, tute da ginnastica e scarponcini per i locali, tutti caricati nei bus diretti ai siti archeologici.
L’archeologo Agostino Amucano ha spiegato le caratteristiche della Tomba dei Giganti di Su Monte ‘e S’Abe che, con i suoi 28 metri è tra le più lunghe di tutta la Sardegna. Questi monumenti, completi di area cerimoniale e mensole per le offerte, sia all’esterno che all’interno, erano le sepolture collettive dei Nuragici.
Dal culto dei morti a quello dell’acqua, testimoniato dal Pozzo Sacro di Sa Testa, scoperto negli Anni Trenta ed utilizzato dai Nuragici, dai Punici e dai Romani. La prova di questa sorprendente continuità d’uso, è nel materiale ritrovato: tazze, monili in bronzo, testine in terracotta e bruciaprofumi di fattura punica; resti di anfore, coppe e statuine di età romana.
Il Pozzo Sacro è stato spiegato, in modo esauriente ed efficace, dalla giovane e bravissima Viviana Pinna. Molto apprezzata anche la visita, coordinata dall’archeologa Giovanna Pietra, all’Acquedotto Romano, uno dei meglio conservati della Sardegna.
A colpire i visitatori sono state soprattutto le arcate, costruite in opera cementizia (grande rivoluzione dei Romani), e l’imponente cisterna che, forse serviva alcune ville o fattorie di notevoli dimensioni.
Ultima tappa: il Museo Archeologico, con Rubens D’Oriano che ha guidato i vari gruppi lungo un percorso distribuito su due livelli. Già pronti gli spazi per accogliere, a breve, i primi due relitti restaurati delle antiche navi romane. I legni, riportati alla luce durante gli scavi per la realizzazione del tunnel, testimoniano l’affondamento ad opera dei Vandali, ricostruito anche con la tecnologia multimediale.
Altrettanto efficace è il maxi plastico del porto antico. Le preziose memorie dell’Olbia nuragica, fenicia, greca, cartaginese, romana e medioevale, messe adeguatamente in risalto, hanno sorpreso ed entusiasmato i tanti che ancora non conoscevano il Museo e il suo contenuto.
martedì, ottobre 09, 2007
Sulle tracce di Guttuso a Padru si ritrovano frammenti di vita occultata
Nella foto: opera congiunta a 4 mani tra Guttuso e Mister Luna dimensione 230x160 denominati Zodiaco, specchi Galleria Cà d'Oro Roma 1980.
Nel ventennale della morte del grande pittore siciliano, la mostra allestita dalla Provincia di Potenza e curata da Rino Cardone, è stata riproposta a Padru, piccolo paese gallurese a pochi chilometri da Olbia, con il titolo “Sulle tracce di Guttuso”.
Nel programma (auto-imposto dalla "Biennale Isole") sui Maestri del Novecento che, in qualche misura, hanno avuto a che fare con la Gallura, non poteva mancare Renato Guttuso. L’artista, già celebre, arrivò in Sardegna nel 1963 per presiedere il 3° Premio di Pittura “Città di Olbia”.
La scelta del Maestro siciliano, come Presidente della Giuria, fu dovuta alla sua fama e a motivazioni politiche. Nel catalogo della mostra di Padru è riportata una foto del 1963, pubblicata, a suo tempo, anche nella Nuova Sardegna, dove il Maestro Guttuso, affiancato da Aldo Cesaraccio noto “Frumentario” e dal professor Gerolamo Sotgiu, premia il pittore Lino Pes, allora ventitreenne, attualmente direttore del Premio Isole ed inventore della Rassegna Maestri del Novecento.
“Galeotto” per l’accettazione dell’invito, da parte del pittore, fu, forse, un amore locale e clandestino. Nei pochi giorni trascorsi ad Olbia, Guttuso fu infatti ospite, in varie circostanze, presso i parenti dell’allora sua “Musa ispiratrice” che trascorreva lunghi periodi ad Olbia ma, solitamente, viveva a Roma. Dall’amorosa amicizia fra Renato Guttuso e la signora C.P., nacque Antonello che, nella fase finale e travagliata della vita terrena di Guttuso, si ritrovò (per poi sparire una volta tacitato con un sostanzioso assegno), al centro di una controversa questione ereditaria.
Ad essere coinvolti, in diversa misura e a vario titolo furono, tra gli altri: la contessa Marta Marzotto sua amante e modella per vent’anni (allontanata dal letto di morte per una presunta “conversione” del Maestro); la signora C.P.,madre di Antonello (unico figlio naturale del pittore); i parenti di Mimise Dotti (moglie di Guttuso, morta pochi mesi prima di lui) e il segretario tuttofare Fabio Carapezza che l’artista siciliano, per la regia di un notissimo uomo politico e di un illustre prelato, adottò, a tempi di record, tre mesi prima di morire.
In quegli anni, Carapezza, come non tutti sanno, era il fidanzato di Marisa Laurito che, in un popolarissimo programma di Renzo Arbore, l’aveva ribattezzato, in modo alquanto irriverente, “Scrapizza” (con la erre arrotata), diventato un personaggio-cult della trasmissione. Completato l’iter della adozione-lampo, l’ex “Scrapizza” oggi Fabio Carapezza Guttuso, presiede la Commissione Mibac , per la sicurezza del patrimonio culturale nazionale e gestisce l’intero lascito artistico del Maestro, attraverso l'Associazione Archivi Guttuso (www.guttuso.com).
Nel sito ufficiale si legge che è “nata per promuovere la conoscenza dell'opera di Guttuso e la sua catalogazione, ha sede nello studio del Pittore a Palazzo del Grillo a Roma”. Inoltre si specifica che tale istituzione “ha la rappresentanza legale dell'Artista, per la difesa dell'opera e della memoria”.
Ma, visto che si parla di “memoria”, nella biografia di Renato Guttuso, riportata sul sito, non c’è traccia, neanche una minima citazione del rapporto dell’Artista con Marta Marzotto. La mancanza di memoria, in questo caso, cancella anche il sodalizio artistico tra il pittore e la modella, comunque riconoscibilissima in numerose composizioni e studi preparatori. Le tracce di Guttuso in Gallura portano anche all’invenzione scenografica della terrazza mediterranea nel salotto e nel bagno dell’ex villa Marzotto a Porto Rotondo.
Dove vai Velázquez?
Testo e foto in www.marellagiovannelli.com (sezione Marella Giovannelli)
"Dove vai Velázquez?"
Questo scritto, curioso in tutti i sensi, opera non recente del pittore olbiese Lino Pes, è un omaggio d'amore e provocazione al celebre artista spagnolo, definito nel 1752 da Jacques Lacombe “genio ardito e penetrante, pennello fiero, colore vigoroso e tocco energico”.
"Le niñas hanno occhi che vedono
il tuo amore diverso per i nani
Dove vai Velázquez?
La stanza del Retiro
umida d'orina
non contiene la tua ombra
oltre la porta.
Venere allo specchio
ha smesso i panni neri
della dama col ventaglio e al frusciare di seta
stringe le grandi labbra.
"Dove vai Velázquez?"
Questo scritto, curioso in tutti i sensi, opera non recente del pittore olbiese Lino Pes, è un omaggio d'amore e provocazione al celebre artista spagnolo, definito nel 1752 da Jacques Lacombe “genio ardito e penetrante, pennello fiero, colore vigoroso e tocco energico”.
"Le niñas hanno occhi che vedono
il tuo amore diverso per i nani
Dove vai Velázquez?
La stanza del Retiro
umida d'orina
non contiene la tua ombra
oltre la porta.
Venere allo specchio
ha smesso i panni neri
della dama col ventaglio e al frusciare di seta
stringe le grandi labbra.
Dove vai Velázquez?
Tu non hai brividi
per la donna dietro la tenda ?
Il cane del re
non può che sognare la caccia
o nascondere la coda
alla molestia del fanciullo.
Dove vai Velázquez?
Tu che conosci il sudore minuto
e il ghigno malato del papa
Dove vai Velázquez?
La verga rossa del buffone
castiga i nani.
Il ragazzo di Vallecas
ride dell'Infante
e il principe Baltasar
piscia sui broccati vermigli.
Dimentica i santi Velázquez !
Quando le ore bussano alla porta
socchiusa ai campanelli d'ottone
le niñas hanno occhi grandi di cane
e vedono il tuo amore diverso
per i nani.
Dove vai Velázquez?"
Tu non hai brividi
per la donna dietro la tenda ?
Il cane del re
non può che sognare la caccia
o nascondere la coda
alla molestia del fanciullo.
Dove vai Velázquez?
Tu che conosci il sudore minuto
e il ghigno malato del papa
Dove vai Velázquez?
La verga rossa del buffone
castiga i nani.
Il ragazzo di Vallecas
ride dell'Infante
e il principe Baltasar
piscia sui broccati vermigli.
Dimentica i santi Velázquez !
Quando le ore bussano alla porta
socchiusa ai campanelli d'ottone
le niñas hanno occhi grandi di cane
e vedono il tuo amore diverso
per i nani.
Dove vai Velázquez?"
mercoledì, ottobre 03, 2007
Quell'estate del 1986 con Margaux Hemingway a Porto Rotondo
Mara Malda per www.marellagiovannelli.com
“It is the same old story (no love and glory!)”. Questa frase è contenuta in una cartolina postale che, l’altro giorno, mi sono ritrovata fra le mani. Ad inviarmela, nell’ottobre del 1986, era stata Margaux Hemingway, amica bella e sfortunata, che, quell’estate, aveva trascorso le sue vacanze ospite di Enrico Coveri, in una villa da lui presa in affitto a Porto Rotondo, nell’insenatura di Punta Volpe. La stessa villa, qualche tempo dopo, è stata acquistata da Veronica Lario Berlusconi che, a sua volta, qualche anno fa, ha venduto la grande casa, a pochi metri dal mare, al russo Roustam Tariko.
Nel 1986 Margaux aveva 31 anni, una carriera di attrice e top-model già alle spalle. Invitata a Porto Rotondo da Enrico Coveri (geniale stilista, morto nel 1990), la nipote del grande scrittore Ernest Hemingway, arrivò preceduta dalla sua fama di donna splendida, protagonista del jet-set internazionale, ricercata nel mondo del cinema e in quello della moda.
Margaux invece, spiazzò tutti. Era di una semplicità disarmante; sempre inquieta, a volte triste. Succedeva quando parlava delle sue storie d’amore fallite, dei chili che non riusciva a perdere, delle delusioni professionali e della solitudine da cui era ossessionata.
Ma, dopo qualche giorno, recuperò un’allegria contagiosa riscoprendo l’amore per il mare, lo sport e il cibo sano. Mi ricordo le nuotate al largo di Punta Volpe; lei amava indossare, anche in acqua, una maglietta bianca. Una sera le presentai un avvocato romano, nostro amico e ospite a casa mia, a Porto Rotondo. Margaux e Roberto si piacevano anche se, entrambi, si portavano dietro ricordi, non smaltiti, di storie precedenti. Memorabile fu una trasferta-lampo da Porto Rotondo a Palma di Maiorca per una festa della De Beers.
Avevano invitato Margaux come testimonial e lei chiese a me e a Roberto di accompagnarla. Ci disse che un aereo privato ci aspettava ad Olbia ma, arrivati al “Costa Smeralda”, ci trovammo davanti a un aeroplanino che sembrava un giocattolo tanto era piccolo. Roberto ed io volevamo tornare indietro ma Margaux ci convinse a salire, invitandoci “ad affogare la paura nello champagne “ che lei, previdente, aveva portato. Arrivammo a Palma di Maiorca in uno stato allegramente confusionale tanto che, di quella festa, non ricordo assolutamente nulla. Comunque ritornammo sani e salvi a Porto Rotondo e, a fine estate, Margaux partì in una forma sicuramente migliore di quando era arrivata. A ottobre ricevetti quella cartolina dove, tra l’altro, lei mi scriveva “Come and visit me”, cosa che, purtroppo, non ho mai fatto.
Dieci anni dopo quella vacanza sarda, il 1 luglio 1996, a Santa Monica, in California, Margaux si è tolta la vita con una overdose di sedativi, esattamente nel trentacinquesimo anniversario del suicidio di suo nonno Ernest Hemingway. Margaux mi aveva parlato più volte di quel destino tragico che aveva unito il celebre nonno, il bisnonno Clarence, lo zio Leicester e la zia Ursula. Suoi incubi costanti erano la catena dei suicidi e le storie di alcolismo all’interno della famiglia Hemingway.
Ad accompagnare la notizia della morte di Margaux, una specie di bollettino della disperazione, dove si ricordava il suo ricovero al Betty Ford Center nel 1988, la bancarotta del 1990 e un arido elenco dei cosiddetti “fattori di rischio”, comprendente l’alcolismo, l’epilessia e la bulimia. A me, di Margaux, morta senza amore e senza gloria, restano solo quella cartolina dell’ottobre 1986 e dei bellissimi ricordi.
Nel 1986 Margaux aveva 31 anni, una carriera di attrice e top-model già alle spalle. Invitata a Porto Rotondo da Enrico Coveri (geniale stilista, morto nel 1990), la nipote del grande scrittore Ernest Hemingway, arrivò preceduta dalla sua fama di donna splendida, protagonista del jet-set internazionale, ricercata nel mondo del cinema e in quello della moda.
Margaux invece, spiazzò tutti. Era di una semplicità disarmante; sempre inquieta, a volte triste. Succedeva quando parlava delle sue storie d’amore fallite, dei chili che non riusciva a perdere, delle delusioni professionali e della solitudine da cui era ossessionata.
Ma, dopo qualche giorno, recuperò un’allegria contagiosa riscoprendo l’amore per il mare, lo sport e il cibo sano. Mi ricordo le nuotate al largo di Punta Volpe; lei amava indossare, anche in acqua, una maglietta bianca. Una sera le presentai un avvocato romano, nostro amico e ospite a casa mia, a Porto Rotondo. Margaux e Roberto si piacevano anche se, entrambi, si portavano dietro ricordi, non smaltiti, di storie precedenti. Memorabile fu una trasferta-lampo da Porto Rotondo a Palma di Maiorca per una festa della De Beers.
Avevano invitato Margaux come testimonial e lei chiese a me e a Roberto di accompagnarla. Ci disse che un aereo privato ci aspettava ad Olbia ma, arrivati al “Costa Smeralda”, ci trovammo davanti a un aeroplanino che sembrava un giocattolo tanto era piccolo. Roberto ed io volevamo tornare indietro ma Margaux ci convinse a salire, invitandoci “ad affogare la paura nello champagne “ che lei, previdente, aveva portato. Arrivammo a Palma di Maiorca in uno stato allegramente confusionale tanto che, di quella festa, non ricordo assolutamente nulla. Comunque ritornammo sani e salvi a Porto Rotondo e, a fine estate, Margaux partì in una forma sicuramente migliore di quando era arrivata. A ottobre ricevetti quella cartolina dove, tra l’altro, lei mi scriveva “Come and visit me”, cosa che, purtroppo, non ho mai fatto.
Dieci anni dopo quella vacanza sarda, il 1 luglio 1996, a Santa Monica, in California, Margaux si è tolta la vita con una overdose di sedativi, esattamente nel trentacinquesimo anniversario del suicidio di suo nonno Ernest Hemingway. Margaux mi aveva parlato più volte di quel destino tragico che aveva unito il celebre nonno, il bisnonno Clarence, lo zio Leicester e la zia Ursula. Suoi incubi costanti erano la catena dei suicidi e le storie di alcolismo all’interno della famiglia Hemingway.
Ad accompagnare la notizia della morte di Margaux, una specie di bollettino della disperazione, dove si ricordava il suo ricovero al Betty Ford Center nel 1988, la bancarotta del 1990 e un arido elenco dei cosiddetti “fattori di rischio”, comprendente l’alcolismo, l’epilessia e la bulimia. A me, di Margaux, morta senza amore e senza gloria, restano solo quella cartolina dell’ottobre 1986 e dei bellissimi ricordi.
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